Carlo Ratti, lo sguardo lungo sull’innovazione

L’architetto e ingegnere italiano moltiplica le collaborazioni internazionali. E non lesina la sua capacità di elaborare visioni ottimistiche su un futuro dove tecnologia e sostenibilità modificheranno il nostro modo di vivere

Tra gli architetti italiani che più si sono conquistati una visibilità sulla scena internazionale, il nome di Carlo Ratti assume un posizionamento particolare. Architetto e ingegnere, ha fondato lo studio CRA con sedi a Torino e New York, e dirige il Senseable City Lab presso il MIT di Boston. Ma non è certo questa doppia veste tra professione e accademia – quest’ultima indubbiamente blasonatissima – a distinguere ed esaurire la sua allure. Rispetto a colleghi italiani spesso portabandiera di un Made in Italy fatto di stile e identità, Ratti ha fatto della ricerca analitica e disinvoltura tecnologica un’opportunità per coniugare progettualità e capacità di previsione di scenari futuri.

Insomma, Ratti lo si prende in esame non solo per quello che disegna, ma anche per la sua intrinseca capacità di anticipare quello che ci aspetta come se fosse già qui, mettendoci nelle condizioni di sperimentarlo attraverso ricerche o suggestive ambientazioni immersive. È il caso di alcuni suoi progetti che hanno fatto scuola, dal Digital Water Pavilion progettato all’Expo di Saragozza del 2008, fino all’ultimo Padiglione italiano (realizzato insieme a Italo Rota Building Office) all’Expo Dubai 2020 – un progetto criticato per una patina kitsch forse in linea con le aspettative del gusto in voga nel Golfo, che niente toglie però alla portata radicale del suo concept, tutto incentrato sulle opportunità progettuali offerte dalla sostenibilità circolare.

In mezzo, i progetti di Ratti annoverano piani di riassetto urbanistico (l’ultimo quello di Porta Romana a Milano, vinto con OUTCOMIST, Diller Scofidio + Renfro, PLP Architecture e Arup)  e mobili interattivi, allestimenti espositivi e museali, architetture (tra gli ultimi, il MEET Digital Culture Center o l’UNIMI Science Campus) e sistemi open source, dimostrando una facilità ai salti di scala e una fiducia pragmatica – in questo caso più anglosassone che italiana – verso il potenziale offerto dall’innovazione quale leva per un problem solving efficace e poetico. Lo abbiamo intervistato per parlare di innovazione e dei suoi ultimi progetti.

Nuovi spunti e progetti per ripensare manufatti, interfacce, spazi, processi organizzativi e di sviluppo, sembrano diventare sempre più capillari e numerosi. Eppure, niente sembra veramente offrire una risposta tangibile alle nostre vulnerabilità, in particolare quelle legate al riscaldamento climatico.  Come crede che vada orientata l’innovazione per massimizzarne l’impatto?

«Credo che l’innovazione debba sempre essere a 360 gradi, dato che le soluzioni ai problemi con cui ci confrontiamo spesso emergono in maniera inaspettata dagli ambiti più diversi. Tuttavia, spesso ci concentriamo troppo sull’hardware urbano, ossia la forma delle città. La sfida climatica si vincerà anche attraverso il software – il modo di vivere la città. In questo senso, nell’ultimo anno abbiamo visto come le conseguenze della pandemia sulle nostre vite abbiano accelerato trasformazioni già in atto – in particolare con meno spostamenti e maggiore sostenibilità. Ecco, mantenere nel lungo periodo alcuni di questi cambiamenti potrebbe essere un buon punto di partenza».

Ha da poco inaugurato il Padiglione Italiano al nuovo Expo di Dubai, che risponde al tema lanciato da questa edizione, “Connecting minds, creating the future”, con una proposta legata all’economia circolare. Ci racconta come è nata l’idea? È stato anche un modo di ripensare dinamiche e proposte di questi eventi?

«Un problema comune a tutti i grandi eventi, dagli Expo alle Olimpiadi: come evitare che dopo poche settimane o pochi mesi tutto finisca in discarica? Proprio per questo, insieme a Italo Rota Building Office, matteogatto&associati e F&M Ingegneria, abbiamo deciso di puntare sulla circolarità – che si rivela sia nella scelta dei materiali (le facciate, per esempio, sono prodotte a partire dal riciclo di due milioni di bottiglie di plastica) – sia nel concept architettonico: tre scafi di navi, arrivati a Dubai diventano il tetto del padiglione e, al termine di Expo, sono pronti per continuare a salpare verso nuove destinazioni».

Il tema della città è da sempre a cuore della sua ricerca. Tra i suoi ultimi c’è il nuovo masterplan di Brasilia, declinato intorno al tema della domesticazione della natura. Cosa significherà in concreto per i nuovi abitanti del distretto?

«Il problema forse più evidente di Brasilia è che il suo disegno sembra privilegiare un tipo molto particolare di essere umano: l’automobilista. L’asse principale della città, l’Eixo Monumental, è lungo oltre 15 chilometri, ma quando lo attraversi ti accorgi che in alcuni tratti mancano persino i marciapiedi. Come pedone ti senti sopraffatto da un panorama urbano che pare adatto per i selfie – un po’ meno per fare andare le gambe. Mentre oggi le municipalità di tutti i continenti fanno a gara per rendere le strade più sicure per chi si muove a piedi o in bicicletta, i rombi e gli stridori di motori e frenate – costanti della vita di Brasilia – ci ricordano di quando il futuro nel Novecento fosse inestricabilmente associato alle quattro ruote. Il nostro progetto cerca di invertire questa logica: mettere al centro le persone, e il loro rapporto con la natura. In questo senso aiuta anche il piacevolissimo clima di Brasilia: così mite che basta un tetto per proteggerci dagli elementi, permettendoci anche di lavorare all’aria aperta».

Come crede che questo concetto si debba realisticamente applicare anche alle nostre città storiche? Come fare retrofitting con la presenza della natura, per esempio in Italia?

«Stiamo infatti affrontando i temi dell’integrazione tra naturale e artificiale anche altrove. A Milano, ad esempio abbiamo realizzato il masterplan vincitore del concorso per la riqualificazione di Scalo Porta Romana, incentrato proprio sull’integrazione tra naturale e artificiale. Uno degli obiettivi del progetto – sviluppato insieme a Oucomist, Diller Scofidio +Renfro, PLP Architecture e Arup – è proprio quello di favorire un nuovo equilibrio tra città e natura. Il progetto si propone di trasformare l’ex scalo ferroviario di Porta Romana, il quale a lungo ha agito come una frattura nel cuore di Milano, in un nuovo quartiere vivace e sostenibile. La natura non colonizzerà solo l’infrastruttura ferroviaria – ripensata come ampia area verde, sormontata da una “foresta sospesa” che si snoda sopra i binari ferroviari creando punti panoramici insieme a spazi dedicati alle attività all’aperto – ma anche le singole abitazioni, uffici, e spazi per lo sport e il tempo libero».

Sempre sul tema della città ha presentato nel 2019 una proposta per ripensare il Périphérique di Parigi. Come pensa che l’intervento sul principale collo di bottiglia della città più densa d’Europa possa alleviare le pressioni sulla vivibilità di questo spazio urbano? E migliorarne gli spazi limitrofi?

«La mobilità oggi è in grande trasformazione. I veicoli elettrici permettono di ridurre i rumori e le emissioni nocive. Mentre quelli a guida autonoma promettono di scardinare l’idea dell’auto di proprietà, lasciando spazio, invece, a nuovi modelli di condivisione capaci di rendere gli spostamenti più efficienti e ridurre il numero di auto in circolazione. Queste trasformazioni avranno un grande impatto su tutte le città – e in particolare sulle infrastrutture che le servono come il Périphérique parigino. Il nostro progetto per quest’ultimo, vincitore di un concorso internazionale di progettazione, sviluppa una visione di lungo periodo (orizzonte 2050), in cui l’infrastruttura riesce a integrarsi meglio nel tessuto urbano»..

Lo shock imposto dalla pandemia di Covid-19 ha dato vita ad un grande dibattito su come sarebbe evoluto il nostro modo di abitare, lavorare e persino cambiare vita. A più di un anno dalla fine del primo, totalizzante confinamento, quali le sembrano le previsioni che si sono avverate? E quali invece le visioni che si sono scontrate con il ritorno alla realtà?

«Nei primi mesi della pandemia moltissimi commentatori avevano decretato la fine delle città, preconizzando una migrazione di massa verso i borghi. Oggi posso dire di essere stato tra i primi ad aver dichiarato pubblicamente che si trattava di una bufala. Nei loro diecimila anni di storia le città hanno affrontato pandemie peggiori di quella attuale e sono sempre risorte. Pensiamo alla peste, che nel Trecento falcidiò il 60 per cento della popolazione di Venezia: ciò non ci ha impedito, nei secoli successivi, di tornare ad affollare le sue bellissime calli e a pigiarci gli uni contro gli altri nei suoi teatri. Come sta iniziando ad avvenire oggi in quei Paesi che, grazie al vaccino, stanno uscendo dall’incubo Covid-19. Previsioni avverate? Un mondo professionale più flessibile, fatto di lavoro a distanza e in presenza. Spero che resti con noi nel lungo periodo, dato che evidenti benefici in termini di sostenibilità».

L’attività del suo studio e della sua ricerca è quanto mai eclettica, spaziando dall’architettura, all’urbanistica, alla tecnologia verde, fino al design di arredo e prodotto. Come riesce a sintetizzare il suo intervento in ambiti tanto diversi? C’entra la sua fiducia nella tecnologia e nel digitale?

«Ci piacciono tutte le sfide. Secondo il celebre slogan di Ernesto N. Rogers la progettazione deve occuparsi di molteplici scale, “dal cucchiaio alla città”. Oggi potremmo dire: “dal microchip al pianeta”. Per questo è necessario un approccio inclusivo e capace di far convergere molte discipline – quello che noi chiamiamo “design-at-large”».

Per finire, c’è un’innovazione tecnologica di cui sogna di vedere l’applicazione tra vent’anni?

«Senza dubbio Crispr – che sta iniziando a permetterci di applicare i principi della progettazione al mondo della biologia».

By Giulia Zappa

https://www.infrajournal.com/it/w/carlo-ratti-lo-sguardo-lungo-sull-innovazione

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